Il legno è vivo, poroso e respira: una spugna che assorbe e cede umidità. Solo anni di lavoro, esperienza manuale e contatto con la materia costruiscono una conoscenza profonda delle essenze, dei segreti e delle potenzialità e/o eventuali criticità che il legname, ancora grezzo, promette.
In falegnameria il rigore è legge: in fatto di stagionatura, fase fondamentale prima di qualsiasi lavorazione, non si transige e gli insegnamenti di nonno Dutto sono veri pilastri aziendali. Niente forni né forzature. Il legno è stoccato sotto portici e steccato con distanziatori in modo da garantire la circolazione dell’aria, prima orizzontalmente poi verticalmente e spesso “facendolo girare” modificando le pile e ruotando le assi sui loro lati per farle respirare. Anche in questa dimensione artigianale, la fretta non è amica della qualità. Almeno 2-3 anni, a seconda della specie lignea, di stagionatura sono il giusto tempo per avere una materia prima sana che “muova” il meno possibile, come si dice in gergo, senza brutte sorprese a lavoro finito. Un grande investimento di tempo e spazio – oggi si direbbe “di magazzino” – che si traduce chiaramente in investimento economico, con il solo scopo di dare il massimo in termini di eccellenza. Poi ci sono i rischi legati al momento dell’acquisto del materiale: Tu acquisti il legno, lo paghi molto prima di quanto lo andrai a lavorare e puoi perderne una parte. Con le “essenze” pregiate può avvenire che venga intaccato dai tarli: se non è stato tagliato nel periodo giusto può tarlare anche nel primo anno (Giorgio Dutto). Un rischio di impresa non da poco visto che si limita solo con una buona capacità di misurarne il valore già da grezzo.
Infine, al momento della lavorazione, la padronanza delle tecniche è il know how che permette di concludere in modo ideale il percorso di trasformazione.
Il restauro dell’intarsio, per esempio, è il contesto in cui emergono, tra l’altro, le abilità di ovviare alle svirgolature dei sottili strati incollati che formano il disegno, lasciando muovere il legno nella giusta misura, senza forzarlo. Altra prova di maestria degli artigiani di casa Dutto è l’intervento sui dipinti su tavola, dove è fondamentale riassemblare le tavole lignee senza causare movimenti bruschi o spaccature nell’opera d’arte sullo strato superiore.
Sentivo parlare mio papà, in piemontese, di “mapless russ e bianc” da “maple”, “acero” in inglese. Da queste lastronature di 2-3 mm segate sullo stesso pezzo, si riusciva a ottenere dei disegni speculari e linee che sfruttavamo come volevamo e con cui abbiamo fatto tante lavorazioni.
Giorgio Dutto
La scelta delle specie lignee segue senza dubbio un andamento legato alle tendenze, ma nel laboratorio della falegnameria Dutto non sono mai mancate tutte quelle italiane più importanti come noce, ciliegio, rovere, frassino, ma anche quelle “base”, più povere: pioppo, abete, pino.
E se negli anni passati, soprattutto tra gli anni ’60-’70, qui erano di casa legni esotici o particolari come l’abete del Borneo (un legno di grande qualità, che non si deformava, non tarlava e aveva una resa estetica straordinaria) per mobili in stile e tinta noce, o il mogano, di cui la falegnameria conserva ancora tavole di notevoli dimensioni acquistate da nonno Dutto, oppure le radiche di acero, per lavori di lastronatura e impiallacciatura, oggi si tende a preferire l’essenzialità, utilizzando specie nostrane o europee secondo linee e design più minimali. Tra le ultime creazioni, per esempio, un tavolino realizzato con il tronco basale di un olmo della Normandia, semplicemente tagliato e lasciato grezzo a ricreare con le sue venature un quadro di spontanea naturalità.